Antologia

“A SCUOLA DI PACE (2)”

tratto da “Sara e Yasmin, Diario di giorni senza pace”di Daniela Palumbo

Yasmin

Caro diario,
sono tornata a casa da mia zia. Mamma e papà sono riusciti ad andare in Giordania, hanno potuto portare anche Khaleb e Abdullah, ed è meglio così: loro due senza mamma non avrebbero resistito.
 
Io invece sono grande, mi adatto, la notte mi prende la tristezza ma resisto. Mi ha già telefonato tante volte la mamma dicendomi che non vede l’ora di rivedermi.
Sono poi stata al villaggio della Scuola di Pace. All’inizio dovevo fermarmi pochi giorni, il tempo del seminario di pace, ma alla fine non mi andava più di andare via, e la famiglia che conosceva mia zia è stata molto gentile, e così mi ha ospitata, ma dopo un mese di permanenza non me la sono sentita di restare ancora, così sono tornata qui, a Gerusalemme. Ma non ne avevo una gran voglia, anche se il mio morale è decisamente migliorato da quando sono andata al villaggio. Una volta arrivata qui a Gerusalemme mi sono sentita come se mancavo da Anni. Una parte di me aveva cancellato la paura, l’odio, il rancore. È stato bello. Perché lì tiri fuori proprio tutto, anche quello che non sai di avere dentro. E subito dopo ti senti vuota, ma con il passare dei giorni il vuoto è passato, mi sono sentita leggera, ma è diverso dal sentirsi vuota, anzi in quella leggerezza io c’ero tutta, c’erano tutti i miei pensieri, le mie paure, le incomprensioni, ma anche la mia speranza, la voglia di futuro che avevo perso per strada.
Oggi la paura resta lì, dentro, ma non si nasconde più, e io riesco a parlarci, a farla ragionare, a non farla prevalere su di me, anche se non è facile, e non sempre riesco. Ma la cosa più importante è che, oltre alla paura, riesco a vedere ancora il cielo, il sole, i sorrisi della gente. Mi sembrava che fosse tutto scomparso e invece…
Sai… alla Scuola di Pace c’era anche un ragazzo che si chiamava Amin, ma quanto era diverso dal mio Amin… Aveva voglia di pace, aveva voglia che questa guerra finisse, era un ragazzo molto buono, anche con gli ebrei che erano dentro la nostra classe. Io all’inizio me ne sono guardata bene dal dare troppa confidenza agli ebrei. Lo so che è lo scopo della Scuola, ma non ce la facevo.
Piano piano le cose sono cambiate. Alla fine eravamo semplicemente delle persone, dei ragazzi, ebrei e palestinesi veniva dopo. Non che questo abbia cambiato il mio modo di vedere le cose, e non ha cambiato il mio pensiero sugli israeliani e su quello che ci stanno facendo, però almeno so che non sono tutti uguali.
Una ragazza ebrea si chiamava Sara: mi sono resa conto che era, anzi è, una ragazza a posto. Sensibile, corretta, obiettiva. Mi piacerebbe averla come amica, pensa! E chissà, forse ci si rivedrà, io lo spero. Anche lei è di Gerusalemme. Quasi alla fine abbiamo fatto il gioco dell’identificazione, così io un giorno ho dovuto parlare come se fossi Sara, credendo di dire ciò che avevo percepito di lei attraverso i suoi racconti nei giorni precedenti. È stato bello. Perché lei ha fatto lo stesso con me, e ha centrato l’obiettivo. Ma anche io me la sono cavata. Vuoi sapere quello che ho detto al posto di Sara?
<<Oggi vorrei parlare della pietà e della fede. Io e papà leggiamo sempre la Torah insieme. Lui mi spiega cosa vogliono dirci i profeti e i patriarchi, mi fa vedere dentro le parole. L’ultima volta abbiamo parlato di Giacobbe, , ricordate? Ve lo raccontai giorni fa. Giacobbe a un certo punto inizia una lotta con il Signore e vuole, anzi pretende, che il Signore gli sveli il nome. Ma il Signore non lo fa. E dice a Giacobbe che è coraggioso perché ha superato una grande prova avendo avuto il fegato di lottare anche con Lui.
Eppure il Signore non gli vela il nome. Ma gli concede la vittoria. Mi sembrava strano questo episodio, ma dopo che papà mi ha parlato del significato oltre le parole è stato chiaro.
Papà mi ha detto che per noi ebrei il nome è molto importante, è l’essenza ultima della persona, se riveli il tuo nome è come se svelassi un po’ di te stesso.
Così il Signore non vuole rivelarsi a Giacobbe, non gli dice il suo nome perché Lui deve rimanere un mistero per tutti gli uomini. Noi nemmeno pronunciamo il suo nome, per rispetto, per fede; le altre religioni parlano del loro Dio con facilità, noi non possiamo… adesso l’ho capito bene: non lo consociamo fino in fondo, eppure abbiamo fede in Lui. Se non è fiducia questa! Sappiamo che lui È, e questo ci deve bastare.
Non è una cosa tanto facile da mandare giù se ci pensate. Se io non conosco qualcuno dovrei fidarmi? E come faccio a sapere cosa vuole da me? Come faccio a sapere che non sbaglia?
Allora papà mi ha svelato che nell’episodio di Giacobbe, ad un certo punto, il patriarca viene ferito al femore dal Signore.
“Il femore ci serve per camminare, giusto?” mi dice papà. “Giusto” dico io “e allora?”
“Allora il Signore ferisce Giacobbe nel suo cammino verso la vita, e la vita di Giacobbe va verso di Lui, come quella di chiunque ha fede. Avere fede in me, è come se dicesse il Signore a Giacobbe, non è comodo, non sarà mai facile, perché io resterò un mistero per voi uomini, e quindi chi ha fede dovrà anche accettare che il suo cammino nella vita sia segnato, e che le domande sulla vita e sulla morte e sul perché accadano le cose restino senza risposta”.
La nostra fede è questa. E io rispetto il Signore. Eppure, come Giacobbe, su tante cose che non comprendo è come se lottassi con il Signore, per capire, per chiedergli conto della guerra. Per esempio: la mia nonna gli chiede conto dell’Olocausto, e mio padre gli chiede conto di una pace che non ha mai conosciuto. E chiediamo, chiediamo, chiediamo… E si lotta con lui per accettare che sia mistero.
Eppure Lui non è assente. Lui dice e parla e insegna. Certe volte forse siamo noi che non vogliamo ascoltare.
Mi chiedevo per esempio perché il Signore avesse fatto vincere Giacobbe.. A quale scopo? Allora papà mi ha letto un altro brano dove un sapiente svela che il Signore ha assegnato la vittoria a Giacobbe perché questo capisse che non la forza, ma la pietà è più potente di tutto.
Ecco, io vorrei che il mio popolo capisse questo, oggi.