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FUMO PASSIVO: UN PROBLEMA ISTITUZIONALE (Fonte)

L'analisi è collegata anche a tutti gli studi condotti su fumo passivo, cancro polmonare e malattie cardiovascolari assieme a vaste referenze bibliografiche.
I divieti di fumo, e gli inerenti costi economici e sociali, sono basati sulla falsa rappresentazione di evidenza – evidenza che in realtà non corrobora alcuna delle affermazioni dei proibizionisti. Questa breve esposizione è frutto di un processo di distillazione informatica di diversi anni. Mentre si mantiene stretto rigore scientifico (tutta l’informazione è rigidamente documentata), si rende accessibile al non esperto l’intimo meccanismo della più vasta truffa epidemiologica mai concepita. Il fatto che essa sia stata adottata sia dalle autorità sanitarie sia da governi e da illustri personaggi della medicina dovrebbe causare serie preoccupazioni sullo stato dell’integrità istituzionale indipendentemente dell’argomento fumo.

Antefatto -
Il caso contro il fumo passivo è basato principalmente sull’affermazione che esso causi cancro polmonare o malattie cardiovascolari nei non fumatori. La breve analisi che segue esaminerà ciò che è considerata l’evidenza più pronunciata, cioè quella sul cancro polmonare. Va da sé che quanto sottoesposto si applica parimenti sia al rischio di malattie cardiovascolari, sia a quello di ogni altra malattia attribuita al fumo passivo.
Il rapporto della Environmental Protection Agency (EPA) statunitense del 1992, considerato una pietra miliare per l’eliminazione del fumo dai locali pubblici, stabilì che l’elevazione di rischio per cancro al polmone era del 19%. A suo tempo, una corte federale americana dichiarò che il rapporto EPA era fraudolento perché basato su scienza e procedure viziate. Infatti l’elevazione di rischio calcolata dalla EPA è invalida perché basata su risultati palesemente contrastanti.
La EPA dedusse il rischio da 11 studi, di cui otto riportavano un’elevazione di rischio e tre una riduzione di rischio, ovvero protezione dal cancro polmonare. Queste contraddizioni sarebbero sufficienti a negare la probabilità di rischio, ma anche ipotizzando che la media del 19% sia un numero valido, un’analisi di come e da quali dati questo numero sia stato calcolato conduce a straordinarie rivelazioni esposte sotto.
Da notare che queste rivelazioni sono applicabili a tutti gli studi sul fumo passivo che hanno preceduto e seguito il rapporto EPA del 1992 fino al giorno d’oggi.

1. Una inesistente misura -
Gli studi affermano che il rischio di cancro polmonare nei non fumatori aumenta con l’aumento dell’esposizione al fumo passivo. Ciò significa che l’esposizione deve essere accuratamente misurata per quantificare numericamente il rischio con la precisione al secondo decimale
che troviamo negli studi. Visto che il cancro polmonare si sviluppa lentamente e si manifesta
prevalentemente in età avanzata, diventa necessario misurare l’esposizione dei non fumatori durante l’arco della vita. Questo è ciò che gli studi dicono di aver fatto, sebbene non possa essere stata una misura che parte dalla nascita e arriva ai 60-70 anni e nemmeno di una misura a ritroso dall’età avanzata alla nascita, essendo ambedue misure che sono ovviamente impossibili.
Talmente impossibili, infatti, che l’esposizione al fumo passivo non è stata misurata affatto. Invece di una misura indipendentemente oggettiva si è chiesto a non fumatori dell’età di 60-70 anni di ricordare quale fosse stata la loro personale esposizione al fumo passivo durante la vita. Le domande tipicamente concernevano il ricordarsi quante sigarette, sigari e pipe erano state fumate in loro presenza a cominciare dai tempi della loro infanzia. Tali vaghissime memorie, sollecitate solitamente con rapide interviste telefoniche o addirittura provviste dai parenti di persone già decedute, venivano trascritte e registrate dagli studi sotto forma di numeri precisi, come se privi di alcun errore o incertezza. Tutti sappiamo quanto sia difficile ricordare cosa si è mangiato una settimana fa e tanto meno venti anni prima o durante l’ infanzia; come è possibile ricordare con un’assurda pretesa di precisione l’esposizione al fumo di 30 o 50 anni addietro? A meno che non si desideri essere gabellati, l’unica conclusione possibile è che, senza misurazioni affidabili, le elaborazioni statistiche sono un’illusione e così pure i loro risultati di rischio. Questi argomenti sono da soli già sufficienti a scartare gli studi e le conclusioni di rischio.

2. I vizi fatali -
Supponiamo ora che le misure di esposizione siano valide, anche se non lo sono.
Un’altra serie di vizi annulla la credibilità dei risultati di questi studi. Riassunti tendenziosi, condotti da gruppi interessati a trovare rischi sul fumo passivo, riportano che la media di tutti gli studi sul cancro al polmone e fumo passivo pubblicati fino al Maggio del 2006 (circa 75) indica un’elevazione di rischio del 20%, praticamente la stessa immaginata dalla EPA nel 1992. Questa relativamente esigua elevazione non è credibile perché gli studi non tengono conto di tutta una serie di pregiudizi, di tendenziosità (“bias”) e di fattori confondenti che sono inevitabilmente presenti e che sono più che sufficienti a cancellare la dichiarata elevazione. Per esempio, è noto che gente affetta da cancro polmonare è più incline ad amplificare la propria memoria di esposizione di chi non è affetto per ovvie ragioni emotive. Un altro esempio è che alcuni affermano di essere non fumatori ma non dicono di esserlo stati, per cui finiscono nella categoria sbagliata (“misclassification bias”). Un altro ancora: esistono circa 30 fattori di rischio per il cancro polmonare riportati da documentazioni professionali, mentre ce ne sono oltre 300 per le malattie cardiovascolari; il loro più che probabile effetto sugli studi sul fumo passivo non è mai stato credibilmente misurato e apportato a correzione. E’ quindi del tutto probabile che la piccola elevazione di rischio del 20% sia fittizia a causa di interferenze che non sono o non possono essere calcolate.
Quanto finora esposto, aggiunto ai problemi di misurazione menzionati in (1), è sufficiente a spiegare le vistose incongruenze degli studi sul fumo passivo, dove sono visibili sia elevazioni di rischio, sia effetti protettivi o – in numerosi studi - né l’uno né l’altro. Ne segue che le affermazioni sul fumo passivo – qualsiasi esse siano – non possono essere credibili.

3. La metodologia assurda -
Una terza categoria di vizi irrecuperabili invalida gli studi sul fumo passivo indipendentemente dalle prime due e quindi invalida le dichiarazioni di nesso causale. La stragrande maggioranza di questi studi non definisce il rischio in base a più alte o più basse frequenze di cancro in funzione di più alte o più basse esposizioni al fumo; invece – come abbiamo visto - lo definisce in base a differenti memorie tra i gruppi messi a confronto. Gli uni consistono di sedicenti non fumatori tutti con
cancro polmonare ed esposti al fumo passivo, gli altri di sedicenti non fumatori senza cancro polmonare e parimenti esposti al fumo passivo, perché persone che non sono mai state esposte al fumo passivo sono impossibili da trovare. A scopo illustrativo, si immagini che gli studi riportino che la gente senza cancro abbia ricordato un’esposizione di, diciamo, 100 e quella col cancro un’esposizione di 120.
Stranamente, gli studi si arrogano di supporre che l’aver ricordato il 20% di più rappresenti il 20% in più di rischio!
Una tale inconcepibile supposizione implica anche l’assurdo ragionamento che l’aver ricordato il 20% in più di esposizioni - impossibili da verificare o misurare in primo luogo - sia stato responsabile per tutti i cancri al polmone del gruppo così affetto, mentre quelli che ricordano un po’ meno ne sono rimasti totalmente immuni. Inoltre la maggioranza degli studi non trovò differenze di esposizione, mentre altri trovarono che alcuni gruppi affetti da cancro ricordavano un’esposizione inferiore, suggerendo che una maggiore esposizione al fumo passivo avrebbe potuto proteggerli dal cancro stesso.
Semplici differenze di esposizione non potrebbero mai essere tradotte in rischio senza una correlazione alle frequenze di cancro al polmone. Al massimo potrebbero indicare la necessità per ulteriori indagini, ma tali indagini non sarebbero affatto attendibili in assenza di una conoscenza precisa di come e quali altri fattori di rischio e tendenziosità operino in modo diverso tra chi ha il cancro e chi non lo ha; però tale conoscenza non è mai stata - né è - disponibile in questi studi. Queste realtà sono da sole sufficienti a scartare tutti i rischi attribuiti al fumo passivo.
E' esclusivamente sulle basi suesposte che il fumo è vietato nei locali pubblici a "tutela della salute dei non fumatori”.