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Il totalitarismo democratico

L'Epoca Oscura della democrazia armata. Dietro la guerra in Iraq si staglia la crisi della democrazia. In suo nome, gli eserciti degli Stati uniti e dell'Inghilterra sono partiti alla conquista di Baghdad. Ma non saranno proprio coloro che oggi si atteggiano a difensori globali della democrazia a minacciarla nella realtà? SLAVOJ ZIZEK


La «democrazia» non è semplicemente «il potere della e per la gente», non basta sostenere semplicemente che, in democrazia, la volontà e gli interessi (due cose la cui coincidenza non è affatto automatica) della grande maggioranza della popolazione determinano le decisioni dello stato. La democrazia - nel modo in cui questo termine è usato oggi - concerne, soprattutto, un legalismo formale: la sua definizione minima è l'adesione incondizionata a un determinato insieme di regole formali tali da garantire che gli antagonismi siano pienamente assorbiti nel gioco competitivo. «Democrazia» significa che, a prescindere da qualunque manipolazione elettorale, ciascun soggetto politico rispetterà incondizionatamente i risultati. In questo senso, le elezioni presidenziali Usa del 2000 sono state effettivamente «democratiche»: nonostante le evidenti manipolazioni elettorali, e nonostante la lampante mancanza di significato del fatto che un paio di centinaia di voti abbiano deciso chi dovesse essere il presidente, il candidato democratico ha accettato la propria sconfitta. Nelle settimane di incertezza successive alle elezioni, Bill Clinton ha fatto un commento sferzante quanto appropriato: «il popolo americano si è pronunciato; solo che non sappiamo cosa ha detto». Questo commento dovrebbe essere preso più seriamente di quanto non intendesse lo stesso Clinton: non lo sappiamo neanche ora forse perché dietro quel risultato non c'era alcun «messaggio» sostanziale. Questo è il senso in cui dovremmo problematizzare la democrazia: perché la Sinistra dovrebbe sempre e incondizionatamente rispettare le «regole del gioco» della democrazia formale? Perché non dovrebbe, quantomeno in alcune circostanze, mettere in discussione la legittimità dell'esito di una procedura formalmente democratica? E' interessante notare che vi è almeno un caso in cui i sostenitori di una democrazia di tipo formale (o almeno una parte preponderante di essi) tollererebbero la sospensione della democrazia. Che cosa succederebbe se elezioni formalmente libere fossero vinte da un partito anti-democratico, la cui piattaforma promettesse l'abolizione della democrazia formale? (Questo è effettivamente avvenuto, tra gli altri paesi, in Algeria un paio d'anni fa, e nel Pakistan di oggi c'è una situazione simile.) In un tale caso, molti sostenitori della democrazia converrebbero che la gente non era ancora abbastanza «matura» per la democrazia, e che sarebbe stato preferibile un qualche tipo di despotismo illuminato, avente lo scopo di educare la maggioranza delle persone facendone dei cittadini democratici veri e propri.

Questa sospensione strategica della democrazia sta oggi raggiungendo nuove vette. Gli Usa hanno esercitato una pressione fortissima sulla Turchia dove, secondo i sondaggi d'opinione, il 94% delle persone è contrario alla presenza delle truppe Usa per la guerra contro l'Iraq. Dov'è qui la democrazia? Ogni vecchio militante della sinistra ricorda la risposta di Marx, ne Il Manifesto del Partito Comunista, a quanti accusavano i comunisti di voler minare la famiglia, la proprietà etc.: sono le dinamiche economiche dello stesso ordine capitalista a distruggere l'ordine familiare tradizionale (incidentalmente, un fatto più vero oggi che al tempo di Marx) e ad espropriare la grande maggioranza della popolazione. Analogamente, non saranno proprio coloro che oggi si atteggiano a difensori globali della democrazia, a minacciarla nella realtà? Con una perversa torsione retorica, quando si trovano di fronte al fatto brutale che la loro politica non è in sintonia con la maggioranza della popolazione, i leader favorevoli alla guerra ricorrono al luogo comune secondo cui «un vero leader guida, non segue». E questo, detto da leader solitamente ossessionati dai sondaggi di opinione...

Quando i politici cominciano a giustificare direttamente le loro decisioni in termini etici, si può essere certi che l'etica è chiamata in causa per coprire alcune prospettive oscure e minacciose. E' la stessa enfasi astrattamente retorica sull'etica, nelle recenti affermazioni pubbliche di George W. Bush (del tipo «Il mondo ha o no il coraggio di agire contro il Male?»), a esprimere l'assoluta miseria etica della posizione assunta dagli Usa. La funzione del riferimento etico è qui puramente mistificante, e serve meramente a mascherare la vera posta politica (che non è difficile da discernere). Per individuarla, pensate a come i falchi della geopolitica amano comparare la situazione odierna degli Usa a quella di un paziente in dialisi: la «way of life» statunitense in tutti i suoi aspetti, compresi quelli ideologici, dipende in modo cruciale dalla disponibilità di un determinato quantitativo di approvvigionamenti petroliferi, di cui solo un terzo può essere garantito dagli Stati uniti. Perciò gli Usa sono come un paziente in dialisi, la cui sopravvivenza dipende dall'afflusso di petrolio controllato quasi tutto dalla popolazione musulmana, che è antagonistica ai valori Usa. In breve, un paziente la cui macchina per la dialisi è controllata da un medico pazzo che odia il paziente... L'unico modo per impedire la minaccia permanente è prendere il controllo diretto dei fornitori principali di petrolio in Medio oriente.

La graduale limitazione della democrazia è chiaramente percettibile nei tentativi di «ripensare» la situazione attuale - si è naturalmente per la democrazia e i diritti umani, ma bisognerebbe «ripensarli», e una serie di interventi recenti nel dibattito pubblico danno chiaramente il senso della direzione di questo «ripensamento». In The Future of Freedom Fareed Zakaria, il columnist favorito di Bush, individua la minaccia alla libertà in una «democrazia esagerata», ossia, nell'insorgere di una «democrazia illiberale sia al suo interno che all'estero» (il sottotitolo del libro). Egli trae la conclusione che la democrazia può «attecchire» solo nei paesi economicamente sviluppati: se i paesi in via di sviluppo sono «prematuramente democratizzati», il risultato è un populismo che finisce nella catastrofe economica e nel dispotismo politico - nessuna meraviglia che i paesi del Terzo Mondo che hanno oggi il maggiore successo economico (Taiwan, Corea del Sud, Cile) abbiano abbracciato la piena democrazia soltanto dopo un periodo di governo autoritario. La lezione immediata per l'Iraq è chiara e inequivoca: sì, gli Usa dovrebbero portare la democrazia in Iraq, ma non imporla immediatamente. Deve esserci prima un periodo di circa cinque anni in cui un regime benevolmente-autoritario dominato dagli Usa crei condizioni appropriate per l'effettivo funzionamento della democrazia... Sappiamo ora che cosa significa portare la democrazia: significa che gli Usa e i loro willing partners si impongono come i giudici supremi che decidono se un paese è maturo per la democrazia.

Per quanto riguarda poi gli Usa stessi, secondo la diagnosi di Zakaria, «l'America sta abbracciando sempre di più un populismo sempliciotto che valuta la popolarità e l'apertura come metro chiave della legittimità. (...) Il risultato è un profondo squilibrio nel sistema americano, più democrazia ma meno libertà». Il rimedio è dunque contrastare questa eccessiva «democratizzazione della democrazia» (o «deMOREcracy») delegando più potere a esperti imparziali, isolati dalla mischia democratica, come le banche centrali indipendenti.

Tale diagnosi non può che provocare una risata sarcastica: oggi, nella supposta «democratizzazione eccessiva», gli Usa e il Regno unito hanno cominciato una guerra all'Iraq contro il volere della maggioranza delle loro stesse popolazioni, per non parlare della comunità internazionale. E non assistiamo forse continuamente alla imposizione di decisioni chiave concernenti l'economia globale (accordi commerciali, etc.) da parte di organi «imparziali» esentati dal controllo democratico? Oggi l'idea che, nella nostra era post-ideologica, l'economia debba essere de-politicizzata e gestita da esperti non è forse un luogo comune di tutti i partecipanti? E, cosa ancora più fondamentale, non è ridicolo protestare per la «democratizzazione eccessiva», in un momento in cui decisioni chiave in termini economici e geopolitici non sono di regola poste come questione nelle elezioni: da almeno tre decenni, quanto Zakaria chiede è già un fatto. Oggi ci si divide su questioni ideologiche che riguardano gli stili di vita, in cui infuriano dibattiti accesi e vengono sollecitate delle scelte (aborto, matrimoni gay, etc.), mentre la fondamentale politica economica è presentata come un dominio depoliticizzato di decisioni di esperti: la proliferazione della «democrazia eccessiva» con gli «eccessi» delle azioni positive, la «cultura del reclamo» e le richieste di risarcimenti - economici e non - alle vittime, è in ultima analisi una facciata, il cui retro è il tessere silenzioso della logica economica.

L'opposto della stessa tendenza a contrastare gli eccessi di «deMOREcracy» è la liquidazione esplicita di qualunque organismo internazionale che potrebbe controllare efficacemente la condotta di una guerra - esemplare è qui «Who Owns the Rules of War» di Kenneth Anderson (in The New York Times Magazine, 13 aprile 2003), il cui sottotitolo chiarisce questo punto senza ambiguità: «La guerra all'Iraq richiede un ripensamento delle regole internazionali di condotta. L'esito potrebbe significare meno potere per i gruppi neutrali che si occupano di diritti umani e bene intenzionati, e più potere per gli stati che brandiscono una grossa clava. Questa sarebbe una cosa positiva». La principale lamentela di questo saggio è che, «negli ultimi vent'anni, il centro di gravità nello stabilire, interpretare e informare il diritto di guerra è gradualmente passato dai ranghi militari degli stati leader a organizzazioni di attivisti per i diritti umani». Questa tendenza viene percepita come squilibrata, «scorretta» verso i grossi poteri militari che intervengono in altri paesi, e parziale verso i paesi attaccati - con la chiara conclusione che i ranghi militari degli «stati che brandiscono una grossa clava» dovrebbero essi stessi determinare gli standard con cui le loro azioni saranno giudicate. Questa conclusione è congruente con il rifiuto da parte degli Usa di riconoscere l'autorità del tribunale per i crimini di guerra dell'Aja sui suoi cittadini. In effetti, come avrebbero detto in Il signore degli anelli, una nuova Epoca Oscura sta scendendo sulla razza umana.

Traduzione di Marina Impallomeni

Tratto da:http://www.ilmanifesto.it/Quotidiano-archivio/15-Aprile-2003